Invitato dall’amico Angelo Squizzato e dal direttore dell’ Istituto Rezzara di Vicenza, Giuseppe Dal Ferro, nel 2012 tenni un intervento a Bassano del Grappa sulla radio “tra ascolto e influenza”. E’ a dire il vero un po’ datato, visto che ci sono stati grandi cambiamenti nel settore, e non tutti migliorativi. Ma per certi versi è ancora attuale, e in fondo dimostra che sui destini della radio ci avevo visto abbastanza giusto… L’intervento è lungo, ma lo riporto integralmente, per chi ne fosse interessato. Buona lettura!
Davide Camera
La parola progresso è fondamentale, se vogliamo parlare dei cambiamenti dell’informazione e della comunicazione. Più che in ogni altro settore, a parte l’economia, qui la legge della domanda e dell’offerta si è adeguata proprio ai mutamenti dovuti alle nuove tecnologie, alla velocità dei sistemi di diffusione, che fino agli anni Novanta è stata piuttosto lenta, pur vivendo momenti fondamentali, ma poi ha avuto un’impennata dovuta allo sviluppo dell’informatica e della rete che ha portato a nuovi sistemi di informazione e comunicazione ed alla nascita di nuove figure non necessariamente professionali.
Ed oggi, dove l’informazione tradizionale è stata affiancata da internet, e dove la stessa televisione diventa tematica e sono nate emittenti che fanno informazione 24 ore su 24, siamo ancora su un piano diverso, nel quale un semplice smartphone basta per documentare delle immagini, come è avvenuto per la Rivoluzione di Primavera in Tunisia o in Egitto o per le manifestazioni dell’opposizione in Iran. Cose impensabili non dico all’origine di tutto questo cammino, ma anche, soltanto, pochi anni fa. Un cambiamento epocale, dovuto ad internet, che costringe il giornalista sempre di più a svolgere quel lavoro di verifica delle notizie che ovviamente in questo tipo di informazione e comunicazione diventa fondamentale. Noi però siamo qui principalmente per parlare di radio, anche se necessariamente dovremo capire come si pone di fronte agli altri mezzi di comunicazione, vecchi e nuovi.
Qualche breve annotazione tecnica che ci serve per capire la nascita di un mezzo che in molti amiamo, ad iniziare proprio dal sottoscritto. Marconi effettuava i suoi esperimenti avvalendosi degli studi del fisico tedesco Heinrich Rudolf Hertz, che era riuscito a dimostrare la teoria dello scozzese James Clerk Maxwell, scoprendo le onde elettromagnetiche. Marconi inventò così e brevettò a Londra il telegrafo senza fili, usato con successo soprattutto in navigazione e che permise di salvare vite umane, per esempio in occasione della tragedia del Titanic. Inizialmente però Marconi non vedeva di buon occhio altri esperimenti che invece dei segnali telegrafici cercavano di trasmettere attraverso un microfono voci, suoni e rumori. Lo si era fatto già via telefono, ora si voleva sfruttare la nuova scoperta. Gli Stati Uniti furono all’avanguardia in questi studi, ai quali Marconi dovette in qualche modo rassegnarsi anche per aver perso alcune azioni giudiziarie, ed allora lui stesso ne seguì lo sviluppo.
A far nascere le prime radio, nonostante gli ostacoli dei militari, furono di fatto i radioamatori, che dopo la Grande Guerra costruivano apparecchi trasmittenti e riceventi, grazie alle nozioni tecniche acquisite durante il conflitto operando con le apparecchiature militari di radiotelegrafia Nel 1919, per scherzo, uno di questi giovani, Frank Conrad di Pittsburgh in Pennsylvania, mise davanti al microfono un fonografo e trasmise alcuni brani di musica. In più di mille lo ascoltarono invitandolo a proseguire e una grande azienda si offrì di finanziare la stazione. E fu lui a mettere in piedi la prima stazione radio. Altre ne seguirono in America, e poi in Europa. Sono trasmissioni che vengono definite radiodiffusione circolare, perché da un unico punto di trasmissione sono destinate a tutti, non ad un solo ricevente, e non c’è possibilità di interagire o intervenire, ma solo di ascoltare. Circolari, dunque.
In Italia i primi esperimenti risalgono al 1920, ma è nel 1924 che il governo italiano invita le società concessionarie a unirsi dando vita all’URI, Unione Radiofonica Italiana, che diventa dunque l’unica concessionaria.
La storia della radio in Italia inizia dunque il 6 ottobre 1924 con un concerto sinfonico di un quartetto d’archi, del quale fa parte anche Ines Viviani Donarelli: è di lei, e non dell’annunciatrice Maria Luisa Boncompagni, il primo annuncio ufficiale e quindi la prima voce trasmessa in assoluto dalla radio italiana. Viene trasmesso da Palazzo Corradi, a Roma, in via Maria Cristina, a poca distanza da Piazza del Popolo e Piazzale Flaminio. Una piccola via, sia pure nel cuore della capitale, dove si faceva un pezzo di storia. L’anno dopo nacque la stazione di Milano, nel ’26 quella di Napoli e nel ’29 quella di Torino che negli anni si rivelerà importantissima almeno come quella romana. Nel frattempo, nel 1928, l’URI aveva cambiato nome ed era diventata EIAR, cioè Ente Italiano Audizioni Radiofoniche.
In tutto questo, con le trasmissioni quotidiane in onda per alcune ore della giornata, l’informazione era ancora marginale, il regime non si era ancora reso conto dello straordinario strumento di propaganda rappresentato dalla radio, e andavano in onda solo dei brevi bollettini di notizie redatte dall’Agenzia Stefani, l’antenata della nostra ANSA, controllata da Manlio Morgagni, un fedelissimo di Mussolini. Quindi l’URI, poi divenuta EIAR, originariamente non aveva una propria redazione giornalistica, ma appunto proponeva quelle che venivano chiamate in onda “Notizie Stefani” e che venivano lette da Maria Luisa Boncompagni, cui negli anni si affiancarono poi altre voci. Il Giornale Parlato realizzato da redattori interni – inizialmente si chiama così – comincia ad essere diffuso il 7 gennaio del 1929. Nel 1930 inizia a chiamarsi Giornale Radio.
Che cosa si trasmetteva? Musica lo abbiamo detto, notiziari, commedie, rubriche, varietà, realizzati alternativamente dalle varie stazioni, ma ci fu anche la prima radiocronaca sportiva effettuata da un giovane cronista della Gazzetta dello Sport, Giuseppe Sabelli Fioretti, il 25 marzo 1928. Era naturalmente una partita di calcio. Italia-Ungheria, finita 4 a 3, disputata allo stadio Flaminio di Roma. Ma l’epopea della radiocronaca sportiva si ebbe pochi anni dopo, grazie a Nicolò Carosio, il primo che in Italia ha sviluppato, anche dando spazio a un po’ di immaginazione, il ruolo del radiocronista, e che ebbe la sua apoteosi con i mondiali del 1934, vinti proprio dall’Italia di Vittorio Pozzo. Fu la sua voce a descrivere le gesta azzurre, anche in giro per il mondo. Poi sarebbero arrivati Nando Martellini, l’epopea di Tutto il calcio minuto per minuto con Bortoluzzi, Ameri, Ciotti, Provenzali che continua ancora oggi con degni eredi guidati da Riccardo Cucchi, cresciuto all’ombra dei grandi.
Lo sport è dunque da subito uno dei principali momenti di attrazione e di comunicazione del mezzo radiofonico, come lo sarà anche per quello televisivo. Ed è – a pensarci bene – il primo momento di racconto simultaneo dell’evento, la descrizione del fatto proprio mentre sta avvenendo, ossia lo specifico della radio. La notizia ora, subito, in diretta, anche se proprio nello sport in Italia ci furono i primi paletti e resistenze ad una diffusione così rapida dei fatti: e se un motivo era comprensibile, il timore cioè che la trasmissione in diretta delle partite svuotasse gli stadi, l’altro invece oggi è risibile, nell’epoca dei collegamenti precari o dei cellulari con la linea che se ne va: le resistenze arrivavano dai tecnici della Radio, che volevano tutte le trasmissioni con il suono pulito… figurarsi un’interruzione tipo “Scusa Ameri ha segnato il Catanzaro”! E invece, pensateci, la radio era proprio quello: la diretta consente la tempestività, il racconto anche agile.
Invece, nei primi anni, l’informazione rimane molto inamidata, con trasmissioni integrali ad esempio delle sedute dei Consigli dei Ministri o di altri eventi che oggi necessitano di un radiocronista per essere gradevoli all’ascolto e soprattutto spiegati a chi sta ascoltando.
Nel 1931 viene inaugurata anche la Radio Vaticana, sotto il pontificato di Pio XII. Inizialmente la realizzazione fu affidata a Guglielmo Marconi, poi invece passò ai Gesuiti.
La radio si diffonde rapidamente in Italia grazie ad un’iniziativa del governo, che aveva capito la forza di impatto di questo mezzo: nasce così la Radiorurale, un ricevitore a prezzo imposto e con caratteristiche standardizzate che poteva essere acquistato solo dagli enti governativi e dagli istituti scolastici o per donazione agli stessi. Dunque la destinazione erano le scuole, le zone delle bonifiche agrarie e gli ambienti collettivi.
Dunque i discorsi di Mussolini, ad esempio, si ascoltano via radio attraverso altoparlanti montati nelle piazze. E la propaganda aumentò negli anni vicini alla guerra, con la radio nelle mani assolute del regime. Una situazione che proseguì fino al conflitto, quando si usava la programmazione per dare le parole d’ordine.
Nel ’43 l’Italia si trovava divisa in due, e la stessa rete radiofonica era diventata terra di conquista per gli uni o per gli altri. Mentre l’EIAR continuava a diffondere la voce del regime, là dove ancora si poteva ricevere, in altre zone del Paese nascevano voci in favore degli alleati, in alcuni casi addirittura dirette da comandi militari americani: molti giornalisti che sarebbero poi diventati protagonisti della scena del dopoguerra si formarono proprio in queste emittenti. Su tutte Radio Bari e Radio Napoli, cui collaboravano sotto pseudonimo giornalisti e intellettuali di grande prestigio. Molti di loro erano fuggiti da Roma e diedero vita soprattutto alla trasmissione “Italia combatte”, prima da Bari, poi da Napoli, infine dalla Capitale una volta liberata. Era una trasmissione voluta dal Comitato di Liberazione Nazionale che davano notizie dal fronte di guerra con indicazioni in codice per i partigiani. Ma in realtà il ruolo fondamentale a livello politico, nella comunicazione, lo ricopriva Radio Londra: dalla Bbc, dal colonnello Stevens, che era la voce ufficiale di Radio Londra, arrivavano le linee politiche effettive da parte alleata, mentre Radio Bari aveva un ruolo di propaganda principalmente nelle popolazioni dell’Italia meridionale. Al nord, la Repubblica Sociale Italiana si era appropriata di quanto rimaneva dell’Eiar, la cui sede a Roma era stata occupata dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43.
Dopo la liberazione di Roma, la radio iniziò lentamente a riorganizzarsi, con l’arrivo o il ritorno di molti giornalisti e programmisti, che si erano formati nelle radio controllate dal comando alleato, ma rimaneva molta confusione, soprattutto perché non c’erano ancora delle chiare regole comuni, che arrivano nell’ottobre del 1944. L’Eiar diventa RAI, Radio Audizioni Italia, e il governo Bonomi prepara un decreto che conferisce direttamente in pratica allo stesso esecutivo il controllo delle trasmissioni radiofoniche. Tutti i cambiamenti avvengono in modo non indolore, e restava ancora una divisione geografica, e quindi molta differenza nei contenuti e nell’informazione.
Con l’avvento del governo democristiano a guida di De Gasperi, la radio iniziò l’opera di unificazione, e un decreto del 1947 fece nascere la commissione parlamentare di vigilanza, dando un assetto anche operativo e organizzativo. Dal punto di vista operativo, la programmazione viene suddivisa in due Reti: la Rete Azzurra, con sede a Torino, e la Rete Rossa che invece trasmette da Roma. La figura di Antonio Piccone Stella, direttore del Giornale Radio, diventa centrale nell’informazione radiofonica e nel suo sviluppo. La radio in quegli anni dà vita a molte iniziative come i documentari radiofonici, veri e propri speciali con musica, effetti sonori, talvolta realizzati in condizioni anche precarie ma con risultati eccellenti. Nascerà la Redazione Radiocronache, diretta da Vittorio Veltroni, un gruppo ristretto di professionisti, unici giornalisti della radio abilitati ad andare al microfono, una sorta di task-force per eventi. Per il resto, la lettura delle notizie e dei contenuti giornalistici era appannaggio degli annunciatori.
A livello tecnico, si utilizzavano i cosiddetti “padelloni”: erano dischi particolari, che giravano all’incontrario rispetto a quelli normali da fonografo, sui quali si registravano i suoni e le voci. Le registrazioni esterne, su nastro magnetico con apparecchi piuttosto pesanti, talvolta si riversavano intervenendo sulle linee telefoniche. Eppure la qualità sonora, riascoltando questi contributi oggi, stupisce positivamente.
Speciali, rubriche, settimanali, appuntamenti fissi, tanto sport. E l’informazione radiofonica si era data uno stile, delle regole operative: o meglio le aveva date Piccone Stella nel 1948, con una GUIDA PRATICA PER QUELLI CHE PARLANO ALLA RADIO E PER QUELLI CHE L’ASCOLTANO, che veniva consegnata ai giornalisti appena assunti. Un libretto che faceva il paio con le NORME PER LA REDAZIONE DI UN TESTO RADIOFONICO, scritte da Carlo Emilio Gadda nel ’53, per tutti l’autore del Pasticciaccio di Via Merulana, ma per molti anni tra i responsabili dei programmi culturali del Terzo Programma, nato nel 1950 proprio per dare più spazio alla cultura, ma anche tecnicamente per sviluppare la nuova Modulazione di Frequenza, che si affiancava alle Onde Corte e alle Onde Medie, ossia alla Modulazione di Ampiezza. Il sistema tecnico dell’FM, poi saturato negli anni Settanta e Ottanta dalle radio libere, consentiva una qualità sonora decisamente migliore, ottimale per la trasmissione di musica classica e concerti. Un limite sempre presente della modulazione di frequenza è quello delle distanze: occorrono molti ripetitori, perché al primo ostacolo il segnale non si sente più, al contrario di onde medie e corte dove si raggiungono distanze anche transoceaniche, ed infatti il servizio Rai per gli italiani all’estero si sviluppava proprio attraverso le onde corte.
Tre canali radiofonici, che dal ’51 si sarebbero chiamati Programma Nazionale, Secondo Programma e Terzo Programma, consentivano una migliore suddivisione delle trasmissioni anche per tipologia. Più simili i primi due canali, nei quali in quegli anni imperava la musica delle orchestre, soprattutto di Cinico Angelini e Pippo Barzizza, e i cantanti dal vivo, come Nilla Pizzi, Alberto Rabagliati, Achille Togliani, Carla Boni, Gino Latilla, il Trio Lescano, Natalino Otto. Nasce il festival di Sanremo, presentato da Nunzio Filogamo, e l’informazione continua lungo la sua strada, con varie edizioni quotidiane del Giornale Radio, tra i cui annunciatori c’era anche un giovane Corrado Mantoni. Nasce Oggi al Parlamento, curata da Jader Jacobelli .E l’autorevolezza della radio è tale che si dice “L’ha detto la radio” per confermare la verità e l’importanza di una notizia. Sul Secondo Programma si provano anche nuove forme di linguaggio legato all’informazione: è in quegli anni infatti che vede la luce Radiosera, con caporedattore Italo Neri che informa sui fatti della giornata in modo nuovo, anche recitato. Gli annunciatori sono chiamati anche per esempio a riproporre in voce pezzetti di processi, e in qualche modo l’informazione diventa anche spettacolo, sia pure nei limiti rigidi di quegli anni.
La radio, forte della sua qualità, guardava con fare altezzoso alla nascente televisione. Il palinsesto radiofonico di quegli anni, sotto la direzione di Giulio Razzi, proponeva molte rubriche, orchestre, cantanti, un’opera lirica registrata nella prima serata del Programma Nazionale, un varietà con concorso a premi in quella del Secondo, che proseguiva la sua programmazione nelle ore della notte con il Notturno dall’Italia, e sul Terzo, che trasmetteva solo la sera, programmazione culturale. Quanto all’informazione: sul Nazionale ci sono sei edizioni del Giornale Radio, sul Secondo cinque, una delle quali è Radiosera, e sul Terzo soltanto Il Giornale del Terzo alle 21, un appuntamento che approfondisce le notizie principali con note e corrispondenze lette dagli annunciatori.
Questo modello di radio proseguì anche negli anni successivi, ma intanto la televisione affilava le armi, ampliava i suoi appuntamenti, faceva nascere nel 1961 il Secondo Programma. Il fatto importante che segnerà un decennio e mezzo era però avvenuto l’anno prima: la nomina di Ettore Bernabei alla direzione generale Rai. Bernabei, che faceva dichiaratamente riferimento alla corrente democristiana guidata da Amintore Fanfani, se ebbe probabilmente il difetto di esercitare un controllo totale su tutto quello che doveva andare in onda, ebbe anche il pregio di introdurre nell’azienda grandissime professionalità, soprattutto giornalistiche, provenienti spesso dalla carta stampata ma destinate a brillanti carriere televisive. La sua visione, molto politica, centralista e di ispirazione fortemente cattolica, però strideva molto con quella del giornalista ed ex commentatore dei telegiornali Gianni Granzotto, amministratore delegato Rai, e soprattutto con quella di Antonio Piccone Stella che nel 1962 lasciò la direzione del Giornale Radio e l’azienda, sostituito da Vittorio Chesi. Bernabei durante il suo lungo mandato vide passare molti presidenti ed alcuni direttori.
L’arrivo di molti giornalisti moltiplicò le edizioni del giornale radio, decidendo però anche destinazioni diverse. Sul Nazionale l’informazione adottava un linguaggio molto tradizionale e collaudato nel tempo, con le voci degli annunciatori più anziani e prestigiosi. Sul Secondo partirono i giornali brevi, di cinque minuti di durata, con varie edizioni durante il giorno, scritti da redattori più giovani e letti da annunciatori sempre tra le nuove leve. Rimaneva poi l’appuntamento tradizionale di Radiosera. Nel frattempo la Rai, sia radio che televisione, si avvaleva di propri corrispondenti all’estero e di inviati di guerra. I loro servizi televisivi arrivavano via aereo, e successivamente via satellite. Per la radio si usava il cosiddetto “cavo musicale”, collegamento diretto che garantiva un sonoro comprensibile, privo delle sporcature delle linee telefoniche all’epoca ancora abbastanza precarie per inviare servizi in voce dall’estero.
Vedete quanto, dopo l’inizio altezzoso, spesso la radio si vada in quegli anni ad intrecciare con la televisione, anche ripetendo in prima serata la diretta di trasmissioni come Canzonissima o del Festival di Sanremo. Nelle ore in cui la tv trasmetteva, la radio perdeva irrimediabilmente ascolti.
Servivano idee nuove. Ed in questa fase le persone che propongono le idee si chiamano Luciano Rispoli, Maurizio Riganti, Renzo Arbore e Gianni Boncompagni: tutti interni Rai, dirigenti o programmatori musicali che comprendevano, anche per l’ascolto delle radio estere, che qualcosa doveva essere cambiato. Erano gli anni in cui gruppi musicali come i Dik Dik, i Profeti, i Nomadi, i Camaleonti, l’Equipe 84 o altri mietevano successi con versioni italiane di brani inglesi o americani di successo, che loro ascoltavano nelle radio estere, e che in Italia ovviamente non arrivavano. Già era molto se arrivava il beat attraverso i giovani cantanti italiani. La nuova musica, invisa al Maestro Giulio Razzi, direttore dei programmi radiofonici, arrivò con la “bandiera gialla” degli appestati. Sembra una battuta, invece andò proprio così per il varo di Bandiera Gialla, il primo programma che possiamo definire giovane e di rottura rispetto alla vecchia radio. Razzi accettò di mandare in onda quella trasmissione, che si rivelò un enorme successo, solo con quel titolo suggerito da Rispoli. Gianni Boncompagni, che presentava, e Renzo Arbore, avevano fatto centro. Era l’inizio di un cambiamento che si concretizzò con l’avvicendamento, nel 1966, del direttore dei programmi radiofonici: al posto di Razzi arrivò Leone Piccioni, che un grande autore come Enrico Vaime definisce un “intellettuale prestato alla radiofonia”. Piccioni si fidava dei suoi collaboratori, e capiva che qualcosa andava cambiato per ridare forza e vigore al mezzo radiofonico, forte solo grazie all’informazione, al giornale radio diretto da Vittorio Chesi con Ugo Martegani caporedattore centrale.
Chi è nato in quegli anni ricorda il risveglio la domenica mattina con la voce di Johnny Dorelli o di Raimondo Vianello: “Gran Varietà”, costruito tutto in un piccolo studio radiofonico di via Asiago, con applausi registrati, effetti sonori di grande sala, insomma un piccolo capolavoro di laboratorio realizzato dal regista Federico Sanguigni, da autori come Dino Verde, Antonio Amurri e Maurizio Jurgens. Non c’era attore o cantante di successo che non fosse passato da Gran Varietà, tranne Sophia Loren che, pensate, fu addirittura rifiutata perché voleva partecipare solo a 3 o 4 puntate e non al ciclo di 13 contrattualmente previsto per ogni artista. Ognuno registrava il suo pezzo, e poi con gli stacchi orchestrali di Marcello de Martino, gli applausi, le risate, la presentazione ad esempio di Dorelli, tutto diventava un bel varietà radiofonico annunciato dall’Auditorio A di via Asiago, il più grande auditorio, che esiste e viene usato, ma mai per questo programma. E lo stesso Bernabei ne fu tratto in inganno, perché chiese i biglietti per assistere alla trasmissione, e gli venne spiegato come veniva in realtà realizzata. Il sabato nacque invece Batto Quattro , sempre presentato dal grande Gino Bramieri e realizzato con il medesimo sistema, però a Milano. Programma più sobrio rispetto a Gran Varietà, ma anche questo realizzato a tavolino.
Era vero, invece, anche se si trattava di claque di studenti, il pubblico di Bandiera Gialla – che votava i cantanti in gara – e quello della storica Hit Parade di Lelio Luttazzi. Con testi di Sergio Valentini che facevano il contropelo ironico all’attualità, Luttazzi, il venerdì allora di pranzo, presentava la classifica degli otto 45 giri più venduti in Italia, ed era un appuntamento attesissimo, grazie anche al grido “Hit Parade” che contrassegnava la sigla della trasmissione.
Nel pomeriggio era nato “Per voi giovani” appuntamento che oltre che di musica, parlava delle problematiche dei giovani, anche con dibattiti e interviste. A curare e condurre il programma era Renzo Arbore, poi negli anni sostituito dai vari Paolo Giaccio, Mario Luzzatto Fegiz, Carlo Massarini, Claudio Rocchi e così via.
Un’autentica rivoluzione che resse anche alla nascita della fascia meridiana televisiva, con la prima edizione del Telegiornale condotta interamente da giornalisti, alle 13.30. Questo perché i programmi, a parte Gran Varietà che piaceva proprio a tutti, erano indirizzati soprattutto ai giovani.
Il lavoro avviato nella gestione Piccioni fu poi proseguito da Giuseppe Antonelli, che gli subentrò nel 1969. A quel periodo si deve in particolare il varo di due programmi rimasti di riferimento anche nelle radio private che vennero successivamente, e che in parte hanno preso corpo ascoltando l’innovativa Radio Montecarlo in lingua italiana, guidata da Noel Coutisson, Radio Capodistria con personaggi del calibro di Luciano Minghetti e Ruggero Po, ed emittenti come Radio Veronica che trasmetteva da una nave, quindi in acque internazionali, come aveva fatto la storica Radio Caroline. I programmi sono “Alto Gradimento” e “Supersonic”. Il primo nasce da un’idea di Renzo Arbore e Gianni Boncompagni, che per la prima volta facevano in un certo senso del jazz radiofonico. Improvvisazione al microfono inframmezzata a musica, con il lancio di brani di importazione che poi le case discografiche erano in qualche modo costrette a pubblicare anche in Italia. L’improvvisazione raggiunse momenti di grandissima comicità con la nascita di personaggi e tormentoni opera in particolare di Giorgio Bracardi e Mario Marenco, ma anche di altri come Marcello Casco e Franco Bracardi, che in molti avrebbero conosciuto come il pianista del Maurizio Costanzo show. Scarpantibus, il professor Aristogitone, il colonnello Buttiglione, per citarne tre, sono entrati nell’immaginario collettivo di più generazioni, dato che il programma terminò nel 1980 ma ebbe poi vari “postumi”, chiamiamoli così.
Supersonic nacque invece per un azzardo del suo primo conduttore, Piero Bernacchi, annunciatore radiofonico a via Asiago che aveva però al suo attivo qualche esperienza alla BBC. Doveva infatti essere una copertura serale, brani semplicemente annunciati a tre alla volta, come spesso avveniva in quegli anni alla radio. Invece, ascoltando la sigla che era stata preparata, un pezzo rock di grande impatto, “In-a-gadda-da-vida” degli Iron Butterfly e l’annuncio con l’eco e con l’effetto di un aereo supersonico, Bernacchi decise da solo che quel programma andava condotto diversamente, e si mise a presentarlo, firmandosi – nonostante gli fosse vietato – presentando tutti i brani scelti da Tullio Grazzini ed inventandosi le dediche. Una novità rivoluzionaria per la radio di quegli anni, che, ognuno con le proprie caratteristiche, seguirono anche gli altri annunciatori che si alternavano a Bernacchi e che si conquistarono in qualche modo quella che io chiamo la “licenza di condurre”, testimoniata da una lettera di apprezzamento della direzione dei programmi radio a Bernacchi.
La rivoluzione radiofonica dei primi anni Settanta non riguarda però soltanto l’intrattenimento, ma anche i programmi culturali e parlati. Nascono infatti i primi veri e propri talk-show, anche con un utlizzo sempre più massiccio del telefono in trasmissione, e quindi con l’interazione diretta degli ascoltatori, come un funzionario della radio, Adriano Magli, aveva visto fare all’estero: nacque così “Chiamate Roma 3131”, condotta prima da Franco Moccagatta (inizialmente ma per poco affiancato da Boncompagni e da Federica Taddei), poi gli subentrò Paolo Cavallina con Luca Liguori prima e con Velio Baldassarre successivamente. Quel numero radiofonico, 3131, con il prefisso teleselettivo 06 per chi chiamava da fuori Roma, fu l’opportunità per gli ascoltatori di far sentire la loro voce, la loro opinione sui temi, raccontare le loro storie, chiamare la radio e parlare in prima persona. Dialoghi che proseguirono anche nella rai del dopo-riforma in particolare con Corrado Guerzoni, che da direttore di Radiodue riprese la formula originaria che era stata modificata dal vento delle novità, e condusse a lungo il programma in prima persona.
3131 andava storicamente sul Secondo Programma: sul Nazionale, poco dopo, nacque il primo importante talk-show di Maurizio Costanzo, da condividere però con Dina Luce: “Buon pomeriggio”, titolo che poi Costanzo riprese anche in televisione molti anni dopo. Dibattiti, riflessioni, interventi e musica. Una trasmissione che ebbe molto riscontro, durava due ore e andava dopo il giornale radio delle 14. In un secondo periodo alla coppia radiofonica Luce-Costanzo se ne alternò un’altra composta da due giornalisti, Pasquale Chessa e Flaminia Morandi che in quegli anni era la moglie di Costanzo.
Le forze giornalistiche fresche arrivate dal corso per radiotelecronisti del 1968 che ha forgiato una generazione di giornalisti Rai colonne del servizio pubblico, avevano intanto creato i loro benefici anche nell’informazione radiofonica: i giornalisti avevano iniziato a condurre alcune edizioni del Giornale Radio, in qualche caso affiancando gli annunciatori, ed erano aumentate le rubriche di approfondimento come Speciale Gr con dibattiti e mini-inchieste. L’informazione, nonostante il forte controllo politico, si ritagliava varchi importanti di inchiesta e approfondimento. La chiusura della storica Redazione Radiocronache, unificata in quella del Gr, fu superata in qualche modo con questa ventata di novità.
Anche tecnicamente era più possibile agire all’esterno, grazie al registratore portatile a bobine della radio dato in dotazione agli inviati, il Nagra, che consentiva la realizzazione di contributi esterni di buona qualità, che potevano essere già realizzati tutti all’esterno, tagliando e incollando il nastro magnetico. Per il trasferimento dei sonori alla regia centrale, quando il tempo stringeva, si utilizzavano le linee telefoniche, collegando l’uscita del registratore alle lamelle della cornetta, dalla quale era stata tolta la capsula del microfono. Le linee telefoniche venivano spesso usate anche per le radiocronache dove non fosse possibile utilizzare un ponte radio. Per esempio in alcuni stadi, la Sip, su richiesta della Rai, metteva a disposizione una linea sulla quale, invece dell’apparecchio telefonico tradizionale, si attaccava un traslatore – o ibrido – un apparecchio che consentiva di inserire una cuffia ed un microfono, o un registratore, in modo tale da collegarsi così in diretta con lo studio centrale e seguire eventi senza il costo eccessivo di un ponte volante collegato con la prima stazione disponibile. La tecnologia aveva decisamente aiutato sia la radio che l’informazione. Ma tutto questo era destinato a cambiare ancora.
Le emittenti estere (Montecarlo e Capodistria) ed alcuni nuovi programmi Rai, ascoltati dalle giovani generazioni, avevano spinto i ragazzi a provare la grande avventura dall’altra parte del microfono. Ai giovani non bastava più ascoltare la radio, volevano farla, parteciparla, essere protagonisti territorialmente, magari proporre le loro canzoni o aprire il telefono alle dediche e alle richieste musicali, praticamente precluse nell’emittente di Stato.
Siamo intorno alla metà degli anni Settanta, e nasce una fase pionieristica, e rischiosa dato che è un momento di monopolio Rai, che aveva già fatto chiudere alcuni esperimenti televisivi privati, e che a Partinico aveva chiuso dopo sole 27 ore una radio libera fondata nel 1970 da Danilo Dolci per dare voce alla gente, che si sentiva isolata dopo il terremoto del Belice di due anni prima, e preda ancora di più di mafia e clientelismo. Negli anni si creò un effetto domino, per motivi e situazioni molto diverse tra loro, soprattutto per la voglia di molti di noi di passare dall’altra parte del microfono.
Giovani appassionati, studenti e radioamatori, costruiscono impianti di bassa potenza, attaccano attrezzature rudimentali, tipo mangianastri e giradischi e vanno in onda. Nascono le prime radio libere, con una primogenitura ancora contesa e che probabilmente mai sarà possibile chiarire del tutto.
Ci sono varie emittenti che rivendicano il fatto di essere nate per prime, ma nessuno è in grado di sapere se ci siano altre emittenti non più esistenti che magari le abbiano precedute: queste emittenti sono Radio Parma, Radio Milano International, che oggi è di proprietà Mondadori e si chiama R101, e Radio Valle Camonica, che ha sempre tenuto un profilo locale e da allora prosegue con le sue trasmissioni. Nelle prime due si facevano le ossa conduttori poi divenuti star della radio.
Fu l’apoteosi, di voci, di musiche, di suoni, di radio dai contenuti più disparati: c’erano il soul, il rock, la discomusic, ma anche le emittenti più sul genere intellettuale, con i cantautori italiani che facevano un certo discorso, magari anche politicizzato, emittenti militanti, radio di semplice intrattenimento o magari di contatto telefonico con gli ascoltatori, già felici di sentirsi con il telefono alla radio e di salutare gli amici che li stavano ascoltando, magari dedicando loro una canzone. Nacquero anche radio a connotazione religiosa: proprio qui nel vicentino, a Lisiera, nacque nel 1974 Radio Oreb, inizialmente emittente parrocchiale che però aveva un buon segnale, e trasmetteva le messe, interventi del parroco-fondatore monsignor Alfonso Scremin ed altre trasmissioni sempre in ambito cattolico. Non sono in grado di dire se fu la prima emittente di questo tipo, ma certo può rivendicare un’importante primogenitura sulle varie Radio Maria e Radio Mater, nate molto dopo.
Il terrore per tutti era quello di vedersi piombare l’Escopost, cioè la polizia postale, a porre i sigilli sulle emittenti che erano tutte abusive. Ma nel gennaio del 1976 la Corte Costituzionale emette una sentenza storica, che cambierà tutto, autorizzando le emittenti radiotelevisive private in ambito locale. Questo provocò un vero e proprio Far West delle radio in modulazione di frequenza. L’FM era quella che garantiva il suono migliore ed una diffusione locale, data la sua limitata diffusione e la necessità di elevate potenze anche per la stessa ricezione cittadina. In questa situazione di totale assenza di normative che regolamentassero l’uso delle frequenze e i diritti delle varie emittenti, in tanti accesero il loro canale e lo difesero qualche volta anche con metodi non proprio ortodossi o ai limiti della legalità. Le emittenti nascevano come funghi, qualcuna si sviluppò diventando regionale, altre mantennero il loro ambito locale, magari si spensero in poco tempo, perché comunque tutte queste radio vivevano della buona volontà di chi operava al loro interno, e spesso i costi erano molti, legati alla corrente elettrica in particolare per gli impianti.
Regioni particolarmente attive sono ovviamente la Lombardia, il Lazio, ma anche il Veneto e l’Emilia-Romagna: di Radio Parma abbiamo detto, ma a Zocca nel Modenese c’era Punto Radio dove tra l’altro trasmetteva Vasco Rossi. C’erano poi le emittenti politicizzate ed in alcuni casi chiuse proprio per questi motivi, come Radio Alice a Bologna, oppure al centro di situazioni di ordine pubblico o addirittura di aggressioni, come successe nella Capitale a Radio Città Futura. C’erano emittenti di denuncia. In Sicilia in tanti ricordano il nome di Peppino Impastato, grazie anche al film “I cento passi”. Impastato aveva lanciato le sue denunce attraverso la propria piccola emittente, Radio Aut, a Terrasini in provincia di Palermo. Difficile trovare, anzi impossibile, negli ultimi decenni, una fase così importante di creatività e di voglia di fare come nei primi anni delle radio libere. La Rai, addirittura, stava cominciando ad ingaggiare alcuni di questi giovani disc-jockey per avere nuove voci nelle proprie programmazioni. In quegli anni capitava di ascoltare alla Rai le voci di molti di loro, o di Barbara Marchand che arrivava da quella Radio Montecarlo, che fin dagli anni Sessanta aveva avviato un suo canale in lingua italiana che aveva rivoluzionato il linguaggio radiofonico e anche le priorità della musica trasmessa. Oltre al direttore Noel Coutisson, vale la pena di ricordare Herbert Pagani, artista geniale a tutto campo, dalla musica, alla pittura, alla poesia, alla letteratura, e proprio ala radio. Pagani nel suo varietà radiofonico Fumorama sperimentò un nuovo uso della radio, che piacque a molti e fece proseliti, anche se la sua genialità era decisamente inarrivabile.
Intanto i partiti fanno pressione per far sentire più voci nella Rai, arrivando alla riforma del 1975, che entrò in vigore l’anno dopo. L’era Bernabei era finita, e la radio e la televisione non erano più sotto uniche direzioni, ma ogni rete ed ogni testata giornalistica avevano un proprio direttore. Concorrenza interna, che portava però anche a idee nuove e a rinfrescare quelle vecchie. La radio ebbe per motivi organizzativi una transizione più lunga per i programmi, solo Radiotre poté sperimentare subito trasmissioni importanti come Prima pagina. Cambiano molto invece i giornali radio.
A dirigere il Gr1 era stato chiamato Sergio Zavoli, che creò una generazione di giornalisti radiofonici di grande spessore, bravi nelle inchieste e negli approfondimenti, e controllava personalmente tutte le edizioni, compresi i flash. Un aneddoto che mi è stato raccontato da uno di quei giornalisti, Duccio Guida, racconta di uno Zavoli che voleva correggere perché troppo involuto, lo stile del Papa: ovviamente non aveva capito che il cronista al telefono stava dettando non un proprio testo, ma l’appello di Paolo sesto ai rapitori di Aldo Moro.
Un’altra grande rivoluzione, molto diversa, la abbiamo al Gr2, e possiamo dire che le news radiofoniche di oggi, molto rapide e veloci, trovano da lì le proprie origini. Gustavo Selva, per prima cosa, abolisce quasi totalmente la lettura degli annunciatori affidando a dei conduttori giornalisti le edizioni principali: sono voci importanti che caratterizzano il giornale, sono Cesare Palandri, Luca Liguori, Mario Giobbe, Paolo Francisci, Filippo Cicognani ed altri ancora. Inoltre accorcia la durata dei servizi all’interno del giornale radio, velocizzando il tutto e rendendo le scalette dei giornali gradevoli perché più ricche di notizie; ancora, come avveniva negli Stati Uniti, introduce la firma non più in testa, ma in coda al servizio, per esempio: Bruno Talamonti-Gr2-Milano, peculiarità questa che serviva anche a conduttori e tecnici per capire che il servizio era terminato e si doveva rientrare. Sono innovazioni stilistiche di grande importanza, mentre in molti però maldigerivano i contenuto degli editoriali di Selva, definito non a caso Radiobelva, tanto è vero che lui stesso raccolse i suoi pezzi in un libro proprio con quel titolo.
Al Gr3 andò un socialdemocratico, un giornalista televisivo esperto di esteri, Mario Pinzauti, che diede una grande connotazione europeista alla testata che dirigeva. Ovviamente, non è il contributo che diedero Altiero Spinelli ed altri padri dell’Unione Europea, ma è comunque un tassello importante verso la formazione di quella entità, economica e politica, ancora da perfezionare sotto molti aspetti. Pinzauti la spiegava, la auspicava, cercava di avvicinare le generazioni più giovani, tanto da dare il via ad un’iniziativa-concorso destinata alle scuole, “I giovani incontrano l’Europa” che durò molti anni ed ebbe moltissimi consensi.
Intanto le radio libere facevano paura, più delle televisioni che ancora erano un fenomeno interessante ma con la Rai che manteneva la sua supremazia con i classici appuntamenti come il quiz del giovedì sera, il varietà del sabato e così via. Presto ci si rese conto, ma non si corse mai del tutto ai ripari, che la concorrenza interna da un lato stimolava ma dall’altro indeboliva. L’ascolto della radio non si fossilizzava più sul servizio pubblico. I giovani spostavano il loro transistor verso il canale locale, il disc-jockey che conoscevano, che potevano chiamare e al quale chiedere la canzone e la dedica. Volevano sentir parlare dei problemi locali, volevano voci che avessero il loro stesso accento, o che magari facessero loro sognare l’America, il mondo. Due estremi ma che rendono l’idea. Aggiungiamo che la Rai si concentrò verso un ascolto più adulto e programmi maggiormente parlati, eliminando prima Supersonic e poi Alto Gradimento, e questo comportò che il giovane ascolto andasse verso altre strade. Tanto più che, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, il fenomeno delle radio libere raggiunse il suo momento migliore, unendo la cosiddetta libertà alla qualità di programmi, scelte musicali e conduttori. Si cresceva, insomma, anche perché il mercato pubblicitario locale cominciava a fare gola anche a qualche gruppo editoriale, e che la qualità delle radio locali era in qualche modo aumentata dalle prime syndication, come Radio Luna, Radio In, che distribuivano i propri programmi registrati alle emittenti locali, magari corredando il tutto con una quota di pubblicità nazionale. Pensate che cosa poteva significare avere nella programmazione di Radio Mestre Centrale anche un’ora condotta da voci Rai. C’erano poi le migliorie tecniche, le trasmissioni in stereofonia (che la Rai ancora non utilizzava se non sperimentalmente ripetendo localmente in FM la Filodiffusione), il suono dei dischi sempre più pulito, i conduttori locali che volevano imparare dai loro modelli nazionali. Alcune volte il risultato era francamente esilarante, ma in altri casi, dove c’era il talento, c’era anche la svolta. C’erano emittenti che diventavano aziende e potevano permettersi di pagare (poco) i loro conduttori, che essendo spesso studenti, erano ben felici di ricevere qualcosa per il loro passatempo, che poi magari spendevano per comprare dischi o l’autoradio.
La Rai dunque si trova costretta a correre ai ripari, a riconquistare i più giovani che ormai si sono diretti altrove. Per la prima volta è in rincorsa, deve inseguire, tra l’altro avendo più mezzi e possibilità per farlo.
L’8 novembre 1982 è una data storica, sotto questo punto di vista: le frequenze Rai si sdoppiano. In onda media continua ad andare in onda la programmazione tradizionale, mentre in modulazione di frequenza, dalle 15 alle 24, partono due programmi musicali nuovi, Raistereouno e Raistereodue. Al microfono giovani conduttori, spesso arrivati dalle emittenti private, in onda successi italiani e stranieri, e brani da lanciare, e l’informazione, esclusi i giornali radio principali che vanno a reti unificate, è rapida, non supera i due-tre minuti, abbreviando ancora di più i tempi della radiofonia. Ma la nuova grande avventura di Radiorai è notturna, in diretta, e si chiama Raistereonotte, dove quattro conduttori, in piena libertà, propongono la loro musica ed escono dai classici stili della radiofonia pubblica, ma anche privata. Lo sdoppiamento Onda media -FM si modificherà nel ’91 con Stereorai e Radioverde Rai, rivolta agli ascoltatori in movimento, che sono sempre di più. Nel ’94 tutto si riunificherà dando indirizzi precisi ai tre canali pubblici, quelli attuali: informazione per Radiouno, intrattenimento per Radiodue e sempre cultura per Radiotre. Attualmente il Giornale Radio e Radiouno sono diretti da Antonio Preziosi, Radiodue da Flavio Mucciante che è anche condirettore del Gr2 e Radiotre da Marino Sinibaldi.
Tornando al nostro racconto, le emittenti private si erano rafforzate, dopo la caduta dell’ultimo tabù territoriale e la possibilità di trasmettere in nazionale. Cominciano a nascere e si sviluppano i network. Grandi gruppi editoriali vanno verso l’acquisizione di radio, come succederà prima per Radio Deejay e poi per Radio Capital, fondate da Claudio Cecchetto e rilevate dall’editoriale l’Espresso-La Repubblica. Si creerà un mercato delle frequenze che i più deboli cederanno ai più forti in cambio di denaro.
A creare problemi alle radio libere di vecchio stampo ci si mette, nel 1990, anche la legge Mammì, primo tentativo di rimettere ordine in questo Far West, ma a ragion veduta, dimostratasi, come altre norme italiane, una sorta di “casa cominciata dal tetto”.
Con la Mammì le radio perdono l’innocenza iniziale, diciamo così, diventando aziende a tutti gli effetti, se non sono invece emittenti comunitarie, ossia non a scopo di lucro, come quelle religiose o gestite da cooperative, ed allora con una serie di obblighi diversi rispetto a quelle commerciali, come una maggior percentuale di trasmissioni in diretta nell’arco della singola ora e dell”intera giornata. Ma gli obblighi per le emittenti commerciali diventano importanti: c’è quello di avere dei dipendenti e di dedicare all’informazione e ai notiziari una parte della programmazione. Vengono inoltre introdotti dei parametri, si distingue tra emittenti regionali, interregionali e nazionali, ossia i network. Sono solo alcuni dei requisiti richiesti per poter avere dal ministero delle Comunicazioni l’autorizzazione ad occupare una o più frequenze, perché di autorizzazione si tratta, mentre per la televisione le frequenze vengono invece date in concessione. Vale la pena di ricordare che comunque le frequenze appartengono al Ministero, e non alle emittenti, ma tutti si comportano come se di quella frequenza fossero proprietari. Molte radio chiudono, alcune perché non autorizzate ed altre cambieranno proprietario.
Negli anni Novanta, gradualmente, tranne alcune eccezioni, i network nazionali inizieranno ad avere il sopravvento praticamente assoluto sulle emittenti locali e regionali, un po’meno per quelle interregionali che hanno un bacino più ampio e magari un buon segnale ricevibile ad esempio in autostrada. E’stata la forza ad esempio di Radio Subasio, emittente di Assisi che al centro Italia si è garantita un ascolto notevole, capace di dare del filo da torcere anche ai network più seguiti, che oggi sono Rtl 102,5, Radio 105, RDS, Deejay, Capital, R101.
L’obbligo di fare informazione anche per le emittenti private ha sviluppato professionalità diverse, quelle di giornalisti radiofonici capaci di redigere in tempi brevi e condurre notiziari agili, magari anche con brevi servizi al loro interno, con redazioni proprie per i network mentre per le altre emittenti, per le quali il costo di produzione poteva essere oneroso, è nata la possibilità di appoggiarsi ad apposite agenzie giornalistiche radiofoniche. La prima a nascere è stata Area, alla quale ne sono seguite altre: oggi oltre ad Area, c’è Grt nella quale lavora il sottoscritto da alcuni anni, c’è stata Italiastampa, Italiapress ed altre ci sono state in passato. Ma gli editori – non tutti ma in gran parte – hanno in genere vissuto l’informazione come un obbligo di legge, e non come un’opportunità per fornire qualcosa in più a chi dalla radio vuole avere tutto, possibilmente in tempi rapidi e senza dover cambiare emittente per sentire le notizie, la sua musica preferita e le informazioni sul traffico.
Oggi, paradossalmente, alcune emittenti stanno svoltando verso il settore informativo, o per autentica convinzione, o per la crisi, che oltre che economica, è anche di ascolti e di costi della pubblicità, insufficienti a reggere il peso di un’emittente radiofonica. Sono sempre di più infatti le emittenti che a livello locale vorrebbero copiare o imitare il modello di Radio 24, emittente tematica nata nel 1999 che si occupa principalmente di informazione e naturalmente con un occhio di riguardo per l’economia. Ma a fare gola ad alcuni editori locali, che evidentemente non sanno quanto sia importante il lavoro di preparazione giornalistica di programmi di questo tipo, è “La Zanzara” di Giuseppe Cruciani nella quale lui e David Parenzo , intervistando protagonisti della politica o della vita pubblica, in genere riescono a fargli dire quel qualcosa di più che diventa notizia, e titolo per i quotidiani. Occorre mestiere per realizzare qualcosa per genere, mentre qualcuno vorrebbe qualcosa del genere anche in ambito locale, magari stravolgendo il format della radio e costringendo conduttori che fino al giorno prima avevano parlato del look di Lady Gaga ad occuparsi di politica, economia, governo e a realizzare interviste di questo tipo.
E arriva la parola format. La radio infatti, diventando azienda, spesso non è più divertimento e spensieratezza: diventa un mestiere per chi la fa e per chi la gestisce. Nascono radio di programmi (cioè con singole trasmissioni che compongono insieme l’arco della giornata), come Radio Deejay o 105, e radio di flusso, dove il formato rimane lo stesso per le intere 24 ore, a prescindere dal conduttore che ci sia al microfono in quel momento, RDS ne è un esempio classico. Il cambiamento della programmazione radiofonica negli anni Novanta, in particolare dopo la legge Mammì e con la nascita dei network come li conosciamo oggi, si deve anche alla sempre maggiore importanza assunta dal rilevamento dei dati di ascolto, la cui metodologia è però uno dei motivi di frizioni tra gli editori radiofonici, categoria nei quali, fin dalle origini, è difficile trovare coesione, anche se alcune associazioni che li raggruppano esistono. La morte dell’associazione Audiradio e il cambio di metodo lo scorso anno si devono proprio a queste divergenze evidentemente insanabili. L’indagine privata e commissionata non piace mai a chi si sente penalizzato.
Che cosa ha comportato, comunque, tutto questo dal punto di vista della qualità dei programmi e della comunicazione? In molti casi, la maggior parte, la paura di rischiare, di proporre qualcosa di nuovo, con la paura di perdere in termini di ascolto quello che si ha, e di non avere nuovi ascoltatori che rimpiazzino quelli vecchi. Così molte emittenti, nazionali e locali – che spesso hanno copiato dai network – hanno finito per assomigliarsi tutte, ne senti una e ti pare di averla già ascoltata. In qualche caso, si sono create emittenti tematiche, rivolte ad ascoltatori di determinate fasce di età, o che trasmettono solo un certo tipo di musica e di contenuti. Quando si tratta di radio comunitarie è sicuramente un’opera meritoria, ma per le radio commerciali, se l’operazione è studiata a tavolino, evidentemente se non si scelgono le persone giuste perde di freschezza.
Qualcosa però sta cambiando, anche tecnicamente. Mentre alcuni esperti indicano come nuova frontiera il DAB, cioè la trasmissione del segnale radio non più in modo analogico come tuttora avviene, con la modulazione della corrente, ma digitale, ampliando quindi frequenze e contenuti non solo audio per ogni singola emittente, sembra che la vera rivoluzione stia arrivando, ancora una volta, dal basso, cioè da internet. La rete informatica consente infatti di veicolare in tempi sempre molto più rapidi dati di vario tipo. Non solo evidentemente testi o immagini, ma anche suoni. Da qualche anno, da quando le codifiche di compressione dei suoni hanno dato risultati sempre più buoni, molti giovani, ripercorrendo con un altro metodo decisamente meno costoso i pionieri dell’FM di una quarantina d’anni fa, danno vita a delle webradio. Riescono, in proprio o attraverso appositi siti internet, ad andare in onda con parole e musica dal proprio computer, facendosi condividere da qualsiasi altro computer di questa terra purché sia connesso ad internet, oppure da altri dispositivi, perché in questi ultimi anni le tecnologie, oltre che sempre più economiche sono diventate anche più agevoli. Basta questo, un computer, oggi, a mandare avanti una radio: le stesse emittenti in FM, anche quelle che trasmettono in diretta, sono ormai completamente automatizzate nella messa in onda, gestita da un computer che contiene tutto: sigle, canzoni, pubblicità, e che viene governato da un fonico, o dallo stesso conduttore, o va anche da solo in automatico. Ed ora che si può anche trasmettere in rete attraverso lo streaming, che diffonde le webradio via internet, anche le radio tradizionali stanno scoprendo questa strada. Di contro, la crisi globale che sta colpendo tutti noi, si sta ripercuotendo ovviamente anche sulla radiofonia, e ci sono emittenti locali che in questi anni hanno resistito a tutto, e che ora invece stanno progressivamente gettando la spugna. Andando nei portali specializzati, si vedono molte recriminazioni contro la politica, ed anche contro se stessi: ancora qualcuno spera nella possibilità di associarsi per non morire. Potrebbe essere già tardi, in effetti, per chi per decenni non è riuscito a trovare unità di intenti pur facendo la stessa cosa. Ma la moria di emittenti, come detto, non significa necessariamente la morte della radio, data per spacciata progressivamente lungo tutta la sua storia, e sempre rinata in qualche modo.
Ci vorrà comunque del tempo, perché la radio tradizionale per alcuni anni resterà ancora primaria, e questo vale anche per chi promuove il digitale nonostante il DAB abbia fatto un primo flop. C’è ancora una generazione di persone che per molti motivi identifica la radio con la Modulazione di Frequenza, con la banda tra gli 88 e i 108 megahertz, dove trova la sua radio, la riconosce, l’ascolta. Le generazioni successive, più facili alle nuove tecnologie o addirittura native come si usa dire, progressivamente arriveranno ad un’altra concezione della radio. Quale?
Azzardiamo che nonostante la loro diffusione praticamente mondiale e illimitata e la pulizia del suono, le webradio sfonderanno solo quando basterà schiacciare un bottone per riceverle. Cioè: dato che negli ultimi anni, con la televisione in onda 24 ore al giorno, l’ascolto radiofonico ormai è diventato soprattutto “in movimento”, cioè si ascolta la radio in automobile, potremo dire che solo quando le autoradio di serie avranno anche la possibilità di ricevere le webradio, cioè lo streaming, saremo a quella che, usando un gergo molto legato proprio all’informatica, potremo definire la radio 2.0. Radio che dovrà diventare alleata e non nemica dei nuovi mezzi usati come veicoli di informazione, ossia portali, blog, trasmissione di foto e di immagini attraverso i cellulari. La radio dovrà insomma ripensarsi, dovrà dimostrare ancora di essere insostituibile e di saper informare e comunicare rapidamente nonostante tutto questo. Secondo me non occorre molto. Le professionalità esistono, occorre ritrovare lo stimolo, la voglia di raccontare storie, situazioni, informazioni, divulgare, considerare gli ascoltatori persone e non mercato, fortunatamente c’è ancora chi lo fa ad iniziare da molte emittenti comunitarie; avere la duttilità di reinventarsi, di far diventare tutto quello che può sembrare un segnale negativo qualcosa di nuovo da scoprire, un’opportunità per crescere.
In definitiva, occorre che chi si occupa di radio professionalmente, dagli editori a chi va in voce, a chi dirige e progetta, riprendano l’antica passione, che poi era quella che negli anni Settanta, ma anche nei pionieri del dopoguerra, aveva sempre alimentato la radio, rendendola viva. Riprendo, in conclusione, le parole di Finardi, di quella sua canzone scritta negli anni Settanta: “Amo la radio perche arriva dalla gente, entra nelle case e ci parla direttamente. E se una radio è libera, ma libera veramente, piace ancor di più perché libera la mente”. Credo che queste parole siano oggi un imperativo per chi vuole che la radio viva e resti viva. Arrivare subito alla gente, ascoltarla, liberarle la mente. Questo volevano essere le radio libere allora. Questo, forse, ci salverà e salverà la radio.
Davide Camera