In Veneto si dice: “Chi ha il pane non ha i denti”, adagio che spesso si è dimostrato vero, riferendolo al mondo della radiotelevisione privata e pubblica. Negli ambiti più piccoli, quelli locali e regionali spesso la presunzione ha portato a scelte scellerate ed autolesioniste, mentre in quelli più grandi alcuni manager che per motivi anagrafici non hanno vissuto l’epopea delle radio libere e quindi dopo la rivoluzione telematica faticano a comprendere lo specifico del mezzo, vorrebbero creare una teoria generale legata alla radio. Eppure i fatti hanno dimostrato che un format radiofonico che funzioni in nazionale, o magari a Padova o Genova, non funziona necessariamente a Firenze o Canicattì. È un campo composito, non facile e molto più complesso di quanto possa sembrare. La qualità del conduttore, cui una volta si affidava la radio “chiavi in mano” nel suo spazio di diretta, ora invece è compressa tra mille orpelli, dettami, claim e citazioni obbligate che ne tolgono l’entusiasmo impedendogli di essere quel valore aggiunto su cui ormai puntano in pochi. Per esempio Deejay, che però ha il difetto di diventare un po’ un mondo a parte, una sorta di club esclusivo, di comunità dove gli ascoltatori si riconoscono, parlano utilizzando un codice che capiscono, ma se non ne fai parte rischi di essere un po’ tagliato fuori da tutto quel mondo. Se ne ha riprova magari quando si tenta di effettuare qualche intervista utilizzando i canali ufficiali, ossia l’ufficio stampa…
Altre emittenti grosse, come Rtl, stanno un po’ prendendo le misure alle giovani generazioni, che però devono ancora comprendere che cosa la radio possa dare di diverso – molto – da un podcast o da un contenuto fruibile quando o come vuoi dal telefonino. Così ci si trova nel guado, prima cercando di svecchiare l’etere e poi rendendosi conto che serve ancora, e molto, chi conosce il mestiere, ma come minimo ha almeno una cinquantina d’anni, spesso di più.
Poi c’è Radio Rai, che si potrebbe definire una nobile decaduta, ma lo si è compreso più negli studi di trasmissione che ai piani alti, dove si lanciano strali al TER, il Tavolo degli Editori, sistematicamente a ogni diffusione dei dati di ascolto che penalizzano il servizio pubblico e che effettivamente andrebbero rivisti nelle metodologie, anche se si tratta di un lavoro complesso e sul quale editori che si guardano in cagnesco, problema atavico, dovrebbero trovare una via comune. Una via che ora la Rai sta cercando da sola, ma gli alti piani probabilmente, forse perché troppo alti, non comprendono che probabilmente in questo modo, anche riuscendo nel suo intento di creare un nuovo soggetto che rilevi gli ascolti, non andrebbe molto lontano.
È vero: ci si basa ancora troppo sui sondaggi telefonici, e non è l’unica analogia con la politica pensando ai comunicati “del giorno dopo” dove ogni editore afferma di avere vinto e guadagnato trovando quel dato cavilloso che gli consente di dirlo. Non si tiene conto dei nuovi metodi di emissione, il DAB e il web. Peraltro, viene in mente che qualcuno in anni recenti si fece male da solo mandando per tutta la giornata di Ferragosto in una delle tre reti Rai soltanto musica senza conduttori, come fosse una filodiffusione con i notiziari… o una piccola radio di provincia chiusa ma con il bobinone in funzione.
Ma c’è una circostanza incontrovertibile, e legata alle generazioni che bene o male ancora sorreggono, sostengono e vivono il mezzo radiofonico grazie alle autoradio e magari a qualche radiolina che ancora circola: per queste generazioni, nonostante i nuovi sistemi di comunicazione e i tentativi di abbandonare la via vecchia che è anche molto costosa, la radio è ancora sinonimo di modulazione di frequenza. L’ascoltano lì, come tanti anni fa.
Certo, si vorrebbe spostarli verso il DAB, verso le webradio, ma il rischio è che levando le FM si “butti via il bambino con l’acqua sporca”… e rimanga un ascolto residuale e, davvero, elitario. Non sarebbe la fine della radio, che non morirà mai, ma rischia di esserci un suo ridimensionamento perché è centrale per chi l’ha vissuta, non può esserlo, ancora meno per redenzione, per chi è nato con molte altre possibilità. Si sono persi tanto: Alto Gradimento, Gran Varietà, fino al Ruggito del Coniglio, si sono persi Fiorello con Baldini, la Non Stop di Radio Milano International che sparigliava le carte, come la vecchia Radio Montecarlo. Ma semplicemente non hanno vissuto quegli anni… anche noi ci siamo persi I quattro moschettieri, ma non sentiamo la necessità di conoscerne l’epopea se non per fini storici. Ecco: risolto questo gap, forse tutti capiranno il futuro della radio. Intanto, basterebbe che gli editori piccoli e grandi smettessero di guardarsi in cagnesco, che si trovasse un sistema di rilevamento riconosciuto da tutti. E che i primi, i piccoli, trovassero un interlocutore unico capace di parlare per tutti con la politica anche se forse per il settore è tardi e le lacrime di oggi sono solo di coccodrillo. Quanto ai secondi, basterebbe che leggessero meno numeri o esperienze estere, e che la radio la ascoltassero proprio come fossero normali ascoltatori. Difficile? Eh, ma ne va del futuro del mezzo…
Davide Camera